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PATTI – “Professore, perché tanto disprezzo della vita intorno a noi ?”

PATTI – “<em>Professore, perché tanto disprezzo della vita intorno a noi</em> ?”
Giugno 15
19:51 2023

Professore, perché tanto disprezzo della vita intorno a noi ?” La domanda di una ragazza di terza media è di quelle toste, che ti lascia quasi inebetito, che ti toglie il fiato, alla quale non è per niente facile dare una risposta. O meglio: forse, “conviene” non darla la risposta perché dovrebbe essere, più o meno, “perché siamo sempre più a livello delle bestie”.

E quando la ragazza mi ha posto la domanda, suscitando un interessante dibattito, non erano ancora accaduti altri episodi, “devastanti” la coscienza (ammesso che esista ancora in tutti una coscienza) degli ultimi giorni: ancora Giulia non era stata massacrata a Senago dal suo compagno; ancora Piero Maurizio Nasca non aveva volutamente investito, a Catania, la moglie e la sua amica, uccidendo quest’ultima; ancora non era scomparsa nel nulla Kata, la bambina peruviana residente  a Firenze;  ancora un Suv  con a bordo cinque giovani, impegnati probabilmente in un challenge, non aveva investito una Smart, provocando la morte di un bambino di 5 anni e “mandato” in ospedale, a lottare per la vita, la sorellina di 3 anni e la madre. E il dolente elenco potrebbe continuare. 

Perché ? Ce lo chiediamo e ce lo richiediamo tutti, pressocchè quotidianamente, con tristezza e, spesso, con rassegnazione, con profonda sofferenza e, contemporaneamente, con tanta rabbia.

Il problema è proprio qui: porsi le domande solo quando accadono i disastri, solo quando vengono brutalmente spezzate vite umane, solo quando succede qualcosa che ci tocca e suscita, quasi in automatico, raccapriccio. Allora, d’incanto, diventiamo tuttologi – giudici, psicologi, psichiatri, forze dell’ordine, educatori, sociologi e chi più ne ha più ne metta – .

Molti reclamano misure drastiche, un ritorno all’”Occhio per occhio dente per dente” della “Legge del taglione”, anche perché viviamo in una realtà dove non sempre è garantita la certezza della pena. Quando “passa” quel momento, quando scema il sensazionalismo, quando tutto ritorna “normale” (ma và a dire ad una mamma che si è visto strappare così il figlioletto – ammesso che supererà la prova della lotta per la vita – che tutto questo è normale), ogni cosa cade nel dimenticatoio, quasi si rimuove tutto (a meno che non ci riguardi direttamente), fino al successivo “disastro”.

Ci stiamo abituando fin troppo a fatti così terribili, ci stiamo abituando fin troppo a puntare sempre l’indice contro la società o contro questo o quell’altro che riteniamo responsabile; ci stiamo abituando troppo al “tutto e subito”, all’accontentare ogni richiesta, ad accontentarci di una mediocrità e di una banalizzazione della vita che poi sfocia in episodi del genere; ci stiamo abituando troppo a delegare ad altri (la scuola, il gruppo sportivo, molto meno, ai nostri giorni, la parrocchia) il ruolo educativo; ci stiamo abituando troppo a non dare valore alla persona, di qualsiasi età, di qualsiasi ceto sociale o “colore” della pelle, di qualsiasi condizione psico-fisica; ci stiamo abituando troppo ad eliminare il riferimento a Dio, tanto che i nostri nonni, se fossero ancora qui, ripeterebbero, come solevano fare: “Non c’eni chiù timuri di Diu”. 

E ci ritroviamo a piangere le vittime di tragedie che distruggono la vita, che sconvolgono famiglie, che confermano che Thomas Hobbes, filosofo inglese di circa 400 anni fa, non sbagliava, purtroppo, quando affermava: “Homo homini lupus”. 

Non stanchiamoci, in ogni caso, di continuare ad essere educatori con i fatti, non a parole; non stanchiamoci di inculcare alle giovani generazioni la convinzione (ma per primi, ovviamente, dobbiamo esserne convinti noi) che la vita è il dono per eccellenza, per cui non può essere distrutta né la propria né, tantomeno, quella degli altri. E’ una fatica, una lotta quotidiana, ma oggi più che mai i tempi impongono di non mollare la presa, di perseverare nella nostra azione di “trarre fuori il meglio” (questo significa educare) dai ragazzi e dai giovani. 

E, come ripete spesso Papa Francesco, “non lasciamoci rubare la speranza”; speranza in una società davvero a misura d’uomo, speranza in un ritorno alle relazioni vere e durature; speranza in una riscoperta del senso profondo della vita; speranza di un recupero di umanità che vinca l’animalità.

E anche noi adulti, di tanto in tanto e non solo quando accadono le tragedie, poniamoci la stressa domanda della ragazza che ha dato l’input alla mia riflessione e, soprattutto, proviamo a rispondere chiedendoci: “E io, nel mio piccolo, nella mia quotidianità, cosa faccio affinchè ciò non accada ?”

Nicola Arrigo

 
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Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo.

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